L’italian sounding dilaga: il business del fake vale circa 60 miliardi di Euro. Che l’Italia e il ‘made in Italy’ siano apprezzati in tutto il mondo è cosa risaputa. Non a caso l’export italiano cresce di anno in anno in ogni settore: moda, design o cibo, associati al nostro Paese rimandano sempre a concetti quali bellezza, bontà, affidabilità.
Il ‘made in Italy’, però, non è soltanto ricercatissimo: è pure – ahimé – imitatissimo. Si tratta del cosiddetto fenomeno dell’italian sounding, ovvero l’utilizzo di nomi, immagini, indicazioni geografiche o marchi che richiamano il nostro Paese su prodotti che di italiano hanno davvero poco o nulla.
Nel campo del food questo fenomeno è molto diffuso, tanto che Coldiretti ha stimato in oltre 60 miliardi di Euro il mercato dei prodotti italiani contraffatti in tutto il mondo. Un business colossale, ma, soprattutto, un danno enorme per l’economia e per l’immagine del nostro Paese.
Abbiamo parlato, in un articolo precedente, del falso prosecco italiano. Bollicine scadenti spacciate per il nostro vino frizzante più venduto ed esportato. Il “Rich Prosecco”, grazie a un look azzeccato e a una testimonial d’eccezione (la bellissima Paris Hilton) ha venduto in pochi mesi oltre un milione di lattine (avete capito bene: si tratta un prosecco in lattina!) tra Europa e Stati Uniti. Successivamente è stato denominato “Rich Secco” per palese violazione delle norme sull’indicazione geografica.
Questi prodotti fake sfruttano l’ottima reputazione del ‘made in Italy’ e finiscono per essere considerati realmente italiani dai consumatori. All’estero, infatti, c’è fiducia e apprezzamento verso il nostro food, ma manca una reale consapevolezza, oserei dire cultura, di come siano e quale sapore abbiano davvero i nostri prodotti alimentari.
E così in America sono convinti che il parmesan sia il nostro pregiatissimo Parmigiano Reggiano. Nei supermercati brasiliani si può trovare il Caccio Cavalo, spacciato per provolone nostrano.
In Argentina usano la salsa pomarola pensando si tratti di genuino pomodoro dello Stivale. Sugli scaffali di alcuni negozi coreani sono stati avvistati pacchi di chapagetti, che dovrebbero essere qualcosa di volgarmente simile ai nostri spaghetti. Senza allontanarci troppo, in Germania possiamo trovare la pasta achuta, che alcuni credono davvero possa assomigliare ai nostri maccheroni! Per non parlare della pizzaburger surgelata, una sorta di “mostro mitologico” metà pizza e metà hamburger, venduta in tutto il nord Europa.
Imitazioni spesso grossolane, nomi sbagliati, traduzioni approssimative, ma tanto che importa? Il ‘made in Italy’ vende sempre. E così il nobile (si fa per dire) vino barbera ‘made in Romania’ è diventato un bianco anziché un rosso. E credete che il salama Napoli abbia davvero a che fare con la città partenopea? Assolutamente no: è… made in Croazia!
Le imitazioni sono tanto più diffuse quanto più ci si allontana dalla nostra Penisola. Stati Uniti e America Latina sono i Paesi dove è più facile imbattersi in falso cibo ‘made in Italy’. Seguono Australia, Corea, Thailandia e Russia. Anche in Europa la contraffazione è a tutt’oggi molto presente, nonostante i prodotti italiani siano protetti e tutelati dai marchi Doc e Igp.
Il business dell’italian sounding, che – come detto – sviluppa cifre astronomiche in tutto il pianeta, danneggia enormemente le aziende italiane. Secondo Coldiretti, oltre alle mancate vendite si aggiungerebbe la sempre crescente sfiducia dei consumatori stranieri che, insospettiti dalle tante frodi, evitano di comprare prodotti italiani, anche autentici, temendo possa trattarsi di fake.
Produttori e istituzioni sono da tempo al lavoro per trovare una soluzione al problema della contraffazione. Oltre alla creazione dei vari marchi (Doc, Docg, Igp) a tutela dei prodotti e della loro origine, è in fase di studio l’introduzione di un super bollino (il cosiddetto “stellone”) che dovrebbe identificare i veri articoli ‘made in Italy’. Auspicato da molti, è, però, oggetto di un aspro confronto sul tema dell’origine delle materie prime: la pasta, ad esempio, è sì italiana, ma spesso il grano utilizzato per produrla ha origine canadese. Si pensi anche al caffè espresso, vero e proprio simbolo ed eccellenza del nostro Paese: alcuni sostengono che non possa considerarsi 100% italiano, dal momento che la materia prima proviene dal Sud America.
A prescindere da ogni discussione, è quantomai urgente che il vero ‘made in Italy’ venga protetto dalla selvaggia e spesso bizzarra contraffazione di cui è vittima.
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